Dissenso e responsabilità: la voce degli intellettuali nel mondo interconnesso / Dissent and Responsibility: The Voice of Intellectuals in an Interconnected World

08.09.2025

— Lo scrittore non ha il diritto di tacere, perché il silenzio è complicità. —

Ngũgĩ wa Thiong'o

Nel mondo interconnesso del XXI secolo, la voce degli intellettuali ha assunto un ruolo diverso, a tratti più fragile e a tratti più incisivo di quanto accadesse nel Novecento. Se durante la Guerra Fredda figure come Sartre, Pasternak o Solženicyn incarnavano un dissenso visibile, talvolta perseguitato ma difficilmente ignorabile, oggi l'intellettuale rischia di disperdersi nella rumorosa arena digitale, dove ogni parola si confonde con migliaia di altre.

Eppure, la frase dello scrittore keniano Ngũgĩ wa Thiong'o ci ricorda che il silenzio resta una scelta politica, tanto quanto la presa di posizione pubblica. In un'epoca segnata da conflitti ibridi, manipolazione dell'informazione e polarizzazione ideologica, il compito degli intellettuali non è solo quello di analizzare, ma di prendere posizione.

L'attivismo politico degli intellettuali d'oggi si declina in modalità molteplici e contraddittorie. In Russia, voci indipendenti come quella di Lev Rubinštejn, recentemente scomparso, hanno continuato a denunciare l'aggressione all'Ucraina nonostante la repressione interna. In Medio Oriente, scrittori come Elias Khoury o Adania Shibli affrontano con coraggio le ferite della guerra e dell'occupazione, trasformando la letteratura in strumento di resistenza. In Occidente, invece, molti intellettuali scelgono i social network come arena: rapidi interventi, prese di posizione immediate, talvolta più simili all'attivismo di piazza che alla riflessione accademica.

Ma la globalizzazione del discorso intellettuale comporta anche un rischio: l'inflazione della parola. L'attivista-intellettuale può trasformarsi in opinionista seriale, e l'impegno politico ridursi a slogan da 280 caratteri. È qui che si gioca la vera sfida geopolitica: distinguere tra chi utilizza la propria visibilità per orientare coscienze e chi, invece, sfrutta la politica per alimentare il proprio brand personale.

Resta però un dato: nelle società autoritarie come in quelle democratiche, gli intellettuali continuano a essere percepiti come figure scomode. Il potere teme la parola perché non è facilmente controllabile: può circolare clandestinamente, aggirare i divieti, depositarsi nella memoria collettiva. In questo senso, l'attivismo degli intellettuali non è mai neutrale. Esso contribuisce a ridefinire lo spazio geopolitico, offrendo narrazioni alternative a quelle dominanti, smascherando il linguaggio ufficiale dei governi e dando voce a comunità marginalizzate.

La lezione, allora, sembra essere quella già contenuta nella frase di Ngũgĩ: tacere significa allinearsi. Oggi come ieri, la politica internazionale non si gioca solo nei palazzi di governo o nei vertici diplomatici, ma anche nelle aule universitarie, nelle pagine dei libri, nei blog e nei video diffusi dal telefono di uno scrittore in esilio. Gli intellettuali che scelgono la parola come arma, pur nella frammentazione del presente, continuano a ricordarci che l'attivismo è ancora un gesto di responsabilità verso il mondo.

Giovanni Valerio


Dissent and Responsibility: The Voice of Intellectuals in an Interconnected World

— The writer has no right to remain silent, because silence is complicity. —
Ngũgĩ wa Thiong'o

In the interconnected world of the 21st century, the voice of intellectuals has taken on a different role—at times more fragile, at times more forceful—than it did in the 20th century. During the Cold War, figures such as Sartre, Pasternak, or Solzhenitsyn embodied a visible dissent, often persecuted but rarely ignorable. Today, however, the intellectual risks being drowned in the noisy digital arena, where every word is blurred by thousands of others.

Yet, the words of Kenyan writer Ngũgĩ wa Thiong'o remind us that silence remains a political choice, just as much as taking a public stance. In an age marked by hybrid conflicts, information manipulation, and ideological polarization, the role of intellectuals is not only to analyze but also to take sides.

The political engagement of today's intellectuals unfolds in multiple, often contradictory forms. In Russia, independent voices such as that of Lev Rubinstein—who recently passed away—continued to denounce the aggression against Ukraine despite domestic repression. In the Middle East, writers like Elias Khoury or Adania Shibli courageously confront the wounds of war and occupation, turning literature into a tool of resistance. In the West, by contrast, many intellectuals have chosen social media as their stage: quick interventions, immediate statements, often closer to street activism than to academic reflection.

But the globalization of intellectual discourse also carries a risk: the inflation of words. The activist-intellectual can morph into a serial pundit, and political engagement can shrink into 280-character slogans. Here lies the true geopolitical challenge: distinguishing between those who use their visibility to shape consciences and those who exploit politics to feed their personal brand.

One fact remains: in authoritarian and democratic societies alike, intellectuals continue to be perceived as inconvenient figures. Power fears the word because it cannot be fully controlled—it can circulate clandestinely, circumvent bans, and settle into collective memory. In this sense, intellectual activism is never neutral. It helps reshape the geopolitical space, offering alternative narratives to dominant ones, exposing the official language of governments, and giving voice to marginalized communities.

The lesson, then, seems to be the one already contained in Ngũgĩ's words: to remain silent is to align oneself. Today, as in the past, international politics is played out not only in government halls or diplomatic summits, but also in university classrooms, in the pages of books, in blogs, and in videos shared from the phone of a writer in exile. Intellectuals who choose the word as their weapon—despite the fragmentation of the present—continue to remind us that activism remains an act of responsibility toward the world.

Giovanni Valerio